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La Differenza che non separa-A difference that does not separate

La prof.ssa Marina Santi condivide con tutti noi questo interessate articolo da lei scritto.





La differenza che non separa


16 DICEMBRE 2014


In questi giorni l'amministrazione Obama e, nello specifico, il Department of Education che distribuisce i fondi federali alle scuole del Paese e stabilisce le linee guida dei programmi formativi, sono chiamati a valutare la compatibilità con le normative vigenti delle proposte di separazione delle classi tra maschi e femmine avanzate in molte scuole pubbliche statunitensi. C’è chi si chiede se questo “dilemma” vada considerato in termini di benefici e svantaggi educativi più che in termini politici. Si dà il caso, però, che i benefici e gli svantaggi di ogni scelta educativa e didattica si valutano in base a dei criteri, a delle evidenze, ma soprattutto in base a delle attese e a dei presupposti di natura non solo pedagogica, ma più largamente sociale ed etica. Ogni azione di politica scolastica, oltre che interferire su delle pratiche didattiche date, risponde ad una visione più o meno esplicita del ruolo e dei compiti dell’istruzione, ed è solo rispetto a questi che possiamo prevedere rischi e vantaggi.


Se si riconosce alla scuola il ruolo e il compito di promuovere lo sviluppo armonico, pacifico e creativo dell’umanità e di ogni singolo uomo e donna, bambino e bambina, in tutte le sue forme naturali, sociali e culturali e nella sua complessità di espressioni, funzionamenti e trasformazioni, certo una “semplificazione” del contesto di insegnamento-apprendimento come quella delle classi separate per genere, dettata da distinzioni oppositive che riducono la differenza all’appartenenza sessuale, non sembra essere una scelta felice. Nei fatti, cercare di ricreare nella realtà complessa dei contesti di vita le “classi” logiche e le classificazioni biologiche mi sembra un’operazione miope, che non coglie né il senso delle classificazioni né il senso della differenza come costante essenziale dello sviluppo umano.


In termini scientifici, c’è chi ritiene che la separazione tra maschi e femmine a scuola favorirebbe l’apprendimento. Ciò perché esisterebbero stili cognitivi e di apprendimento differenti tra gli uni e gli altri. In verità, anche così la questione appare semplificata e mal posta, nella misura in cui parole come “apprendimento”, “cognizione”, “intelligenza” non si riferiscono a fenomeni naturali univoci e incontrovertibili, ma piuttosto a dei costrutti scientifici che non solo sono continuamente rivedibili nella ricerca, ma che nel tempo e nelle culture si sono riferiti a processi diversi. Altrettanto può essere detto dei concetti di genere, come “maschio” e “femmina”, a loro volta esito di complesse, stratificate e spesso non comparabili costruzioni sociali e linguistiche.


Nonostante gli esiti interessanti raggiunti nell’ambito delle neuroscienze, anche con strumenti nuovi come il brain imaging, un collegamento diretto e causale tra le differenze nelle strutture e nelle funzioni tipicamente presenti nei cervelli femminili e maschili e le caratteristiche ormonali legate al sesso resta tutto da dimostrare mentre invece appare sempre più evidente che esiste un rapporto di interdipendenza tra i processi neuronali e l'ambiente, tra lo sviluppo di funzioni fondamentali come l’emergere del “sé” e le sollecitazioni emotive, fisiche e socio-culturali del contesto di vita.


Dunque, le differenze emergono come risultato dell’interazione tra le caratteristiche biologiche di ognuno/a e i fattori contestuali che favoriscono oppure ostacolano l’attività e la partecipazione nei contesti di vita (come ci suggerisce il modello bio-psico-sociale di salute e benessere proposto dall’Organizzazione mondiale della sanità). Stabilire a priori le differenze significa delimitare il tipo di sollecitazioni e il numero delle occasioni per lo sviluppo dei talenti e dei potenziali individuali, trasformando l’atto dell'istruzione in una azione di restrizione delle opportunità e delle direzioni possibili dello sviluppo. Anche prendendo in considerazione i risultati delle ricerche empiriche sulle classi separate per sesso e gli esiti di apprendimento, ne risultano dati controversi per confrontabilità e generalizzabilità.


Non solo: resterebbero in ogni caso da ridefinire le priorità che la scuola attribuisce agli esiti di apprendimento: migliori risultati nei test di matematica? Successo nelle prove standardizzate? Un miglior senso di auto-efficacia? O piuttosto miglior capacità di convivenza, cittadinanza, resilienza, intraprendenza, resistenza e creatività? E cosa dire poi delle priorità date alle così dette “life skills” tanto auspicate dall’OMS? Delle attitudini al dialogo, al rispetto, alla solidarietà, che passano attraverso l’abitudine al confronto, alla contaminazione, alla co-evoluzione tra differenze? Resta poi il dubbio se, a ipotetici stili di apprendimento maschile e femminili distinti, debbano corrispondere stili di insegnamento analoghi… con tutte le complicazioni teoriche e pratiche del caso, specie in un contesto di docenza “al femminile” diffusa.


Spesso proprio la prevalenza di una componente massiccia “di genere” nel corpo docente è stata vista come una “minaccia” alla pluralità di modelli che concorrono alla costruzione dell’identità, specie in età adolescenziale. Analogamente credo che nella continuità dell’esistenza, che va dai primi anni di vita fino alla senilità, segnata da svolte e tappe “critiche” come quella dell’adolescenza, debbano essere proposti modelli plurimi di riferimento e molteplici occasioni di modellamento della propria identità. C’è una sorta di “apprendistato cognitivo” che attraversa tutte le fasi di costruzione e decostruzione della nostra “identità”; fermo restando che nemmeno tale concetto è univoco, singolare, universale. Come lo splendido “Visconte dimezzato” di Calvino o l’insuperabile “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello ci insegnano.


Mi chiedo invece se sia legittimo, da parte della scuola, chiedere a ragazze e ragazzi di assumere il genere sessuale come tratto saliente della propria identificazione personale, ripiegando il proprio “curriculum vitae” su di un curricolo scolastico “politicamente corretto”. Penso al contrario che ciò possa essere considerato un atto limitante, addirittura oppressivo, per molte studentesse e studenti in cerca, con diritto, della “propria” sessualità come componente identitaria dotata di sfumature di grigio (o di azzurro e di rosa) e di variazioni narrative. C’è poi da chiedersi a che idea di “femminile” e “maschile” ci si riferisce, entro contesti multiculturali variegati come quelli in cui la scuola si trova ad operare, e dunque in che direzione verrebbero offerti gli insegnamenti per rispettare una ipotizzata differenza biologica di genere.


Contestare la ripresa di simili “dilemmi” mi sembra semplicemente coerente con una cultura inclusiva e dunque non omofoba e con una educazione orientata al benessere come condizione dell’apprendimento significativo e del successo formativo. Nello specifico, il benessere si nutre del rispetto delle differenze e non del restringimento delle occasioni per incontrarle in contesti protetti come la scuola. Dubito che il maschilismo si superi riducendo le opportunità di superarlo con l’esperienza. Mantenere vivo il valore e riconoscere il vantaggio dell’eterogeneità mi sembra anche un discreto correttivo alle situazioni familiari mononucleari e con figli unici che soffrono già di per sé di penuria di incontri e confronti identitari.


D’altra parte esistono anche in Italia realtà scolastiche definite “sperimentali” in cui maschi e femmine apprendono in aule separate. Ma le realtà scolastiche “single-sex” si possono trovare entrando in un qualsiasi istituto professionale o in un liceo sociale… e questo già la dice lunga sugli ipotetici vantaggi e sulla “naturalità” delle separazioni. Le “sperimentazioni” presenti in diverse città italiane, soprattutto in scuole private e confessionali, di classi separate per sesso non mi pare offrano alcuna garanzia scientifica, sia sul piano teorico che su quello metodologico: le componenti in gioco nei diversi ambienti scolastici sono moltissime, non controllabili e spesso non comparabili.


Resta comunque inalterato il problema di fondo, al di là di ogni giustificazione circoscritta ad alcuni esiti “positivi” di rendimento scolastico: rispettare, tutelare e valorizzare le differenze può passare per la separazione? Le nostre politiche di piena inclusione, adottate da oltre trent’anni in relazione alle differenze funzionali degli alunni e alunne con disabilità, suggeriscono e anzi impongono il contrario, a vantaggio di tutti! Il Department of Education degli Usa a mio parere dovrebbe guardare proprio all’Italia e ripartire da qui. Dal nostro Paese, che ha adottato una politica inclusiva proprio per promuovere la cultura dell’inclusione e per chiedere alla scuola di trasformarla in pratica quotidiana di valorizzazione dell’incontro tra le differenze.


Il vero “dilemma” del nostro sistema-scuola e di ogni insegnante oggi è quello di individuare i mezzi per garantire il successo formativo “di tutti e di ciascuno”, che corrisponde alla capacità di “includere differenziando” e “differenziare includendo”. Non si tratta di differenziare le classi, ma di differenziare la didattica nelle classi e oltre la classe. I problemi logistici della didattica che all’inizio del Novecento condussero il Ministro Orlando ad introdurre le classi miste oggi ci dovrebbero indurre non tanto a discutere di classi separate, ma del senso che hanno le classi come unità base per la didattica. La nuova didattica chiede ambienti di apprendimento flessibili, aperti, multifunzionali, accessibili. La risposta dell’architettura scolastica e dell’interior design contemporaneo sono spazi ricchi e dinamici, adatti alla differenziazione costante dell’offerta formativa e delle metodologie e strumenti di insegnamento, per ottimizzare i vantaggi dell’eterogeneità della popolazione scolastica e favorire l’incontro.


È questa la nuova sfida che abbiamo di fronte e la storia italiana può insegnarci molto per affrontarla, non cedendo alla tentazione di tornare indietro ma imparando dai grandi maestri e maestre - come Lodi, Don Milani, Montessori, le sorelle Agazzi – a costruire sulla sinergia tra le differenze l’emancipazione sociale e l’innovazione didattica.


Marina Santi



A difference that does not separate

In these days Obama’s administration and, more specifically, the Department of Education that is responsible for federal funds distribution to schools and for training programs guidelines, are called upon to analyze the possibility of separating classes for boys and girls, sustained by many US public schools.

Someone may wonder whether this ‘dilemma’ should be considered in terms of benefits or educational disadvantages rather than in political terms. As it happens, however, the benefits and disadvantages related to each educational and teaching choice should be evaluated according to criteria, evidence, and especially, expectations and educational, social and ethical bases.

Besides teaching practices implications, each school policy action responds to a more or less explicit view of education role and tasks, on the basis of which we can predict risks and benefits.

Simplifying teaching and learning context, as it may occur in classes specific for gender due to the appositive distinctions that reduce gender membership, does not seem to be the optimal choice, if we attribute to school the role and the task of promoting the harmonious, peaceful and creative development of humanity and of every single man and woman, boy or girl; of fostering this development in all possible natural, social and cultural forms, and in its complex expressions, functioning and transformations.



Trying to recreate the logical "classes" and biological classifications in the complex picture of life contexts is a sighted operation, which does not capture the sense of classifications or the sense of difference as essential elements in human development.

In scientific terms, school separation between boys and girls has been sometimes viewed as promoting learning. Different cognitive and learning styles between boys and girls seem to supported this idea. Actually, the question is simplified and wrongly set, because words such as "learning", "knowledge", "intelligence" do not refer to natural, unique and indisputable phenomena, but to scientific constructs which may undergo reformulation in the literature and in different ages and culture refer to different processes. The same is also true for concepts such as gender, "male" and "female", which is the outcome of complex, layered and often not comparable, social and linguistic constructs.

Despite the interesting results achieved by neuroscience using new instruments such as brain imaging, a direct and causal relationship between differences in brain structures and respectively functioning in boys and girls and hormonal sex-related characteristics have not been demonstrated, whereas it seems increasingly clear that there is an interdependence in the relationship between neuronal processes and the environment, including the development of basic functions such as the emerging of "self" and emotional, physical and socio-cultural stimuli in life contexts.

Therefore, differences emerge as a result of the interaction between individuals’ biological characteristics and contextual factors that promote or hinder the activities and the participation in the life contexts (as the bio-psychosocial model of health proposed by World Health Organisation suggests).

Setting a priori differences implies constraining the type of stimuli and the number of opportunities for the development of talents and individual potentials, transforming teaching in an action restricting opportunities and possible directions of development. Even learning outcomes obtained by empirical research on single-gender classes are controversial in terms of comparability and generalization.

Priorities that school attributes to learning outcomes should be in any case redefined: Better results on mathematic scores? Success in standardized tests? Higher levels of self-efficacy? Or higher coexistence, citizenship, resilience, resourcefulness, resistance and creativity? And what about the so-called "life skills", which are priorities for the WHO? Attitudes to dialogue, respect, solidarity, that develop through the comparison, the contamination, the co-evolution between differences? However, the doubt is still there if distinct hypothetical learning styles for boys and girls should correspond to analogous teaching styles ... with all the theoretical and practical consequences of this, especially in a context where teachers are mainly females.

Often, in fact, the prevalence of a massive component of "gender" in school team has been itself seen as a "threat" to the plurality of models that contribute to the construction of identity. This is particularly true for adolescents. Similarly, I believe in the continuity of human life, from childhood to aging, as marked by "critical" stages such as adolescence, to which multiple models and multiple opportunities for shaping of identity should be offered. There is a sort of "cognitive apprenticeship" throughout all phases of our "identity" construction and deconstruction, taken for granted that even this concept is not unique, singular and universal. It is like what "Cloven Viscount" by Calvin or the unsurpassable "One, No One and One Hundred Thousand " by Pirandello have taught us.

I wonder, however, if it is legitimate that school asks girls and boys to assume gender as a salient feature of their personal identification, tucking their "curriculum vitae" on a "politically correct" school curriculum. I think that this can be considered a limiting act, even oppressive, for many students who consider "their" sexuality as a part of their multi-colored identity, with shades of gray (or blue and pink) and various narratives. It is important to think about what sort of idea of "feminine" and "masculine" we refer to, within varying multicultural contexts such as those in which school plays a role. Therefore the lesson coming from respecting the hypothesized biological gender difference should follow that direction.

Contrasting the return of such "dilemmas" seems in line with an inclusive culture, therefore with a non homophobic culture and a wellbeing oriented education as a condition for a meaningful and successful learning. More specifically, wellbeing is based on respecting differences and not on narrowing opportunities of meeting them in protected environments such as school. I doubt that sexism can be overcome by just reducing the opportunity of overcoming it with experience. In my opinion, keeping alive the value and recognizing the advantage of heterogeneity may reveal a reasonable adjustment to a single-person household situations or with one child who already suffer from a shortage of meetings and discussions helping identity development.

On the other hand also in Italy there are some "experimental" schools in which boys and girls learn in separate classrooms. But the "single-sex" realities can be already found in vocational schools or high school more focused on teaching ... and this explains it all about the hypothetical benefits and the "naturalness" of separations. The "experimental" classes organized in several Italian cities, especially in private schools, do not seem to offer scientific guarantees, both on theory and on the methodology: there are many, uncontrollable and often non comparable components in school environments.

Nevertheless the underlying problem remains unsolved, beyond any specific "positive" outcome reported on school performance: Can respect, protection and differences enhancing be supported by separation? Our school policy about inclusion students with disabilities adopted from more than thirty years ago, suggests and indeed dictates the opposite, for the benefit of all! The Department of Education of the United States in my opinion should specifically look to Italian situation and start from here, from our country where an inclusive policy has been adopted in order to promote the culture of inclusion and asking school to turn it into daily practice the enhancement of the differences.

In this times the real "dilemma" for our school system and for every single teacher is to identify the means to ensure educational success "of one and all", which consists in the ability to "include differentiating" and "differentiate including". It is not a matter of differentiating between classes, but differentiating instruction inside the class and among classes. Logistic problems in teaching which at the beginning of the twentieth century led Minister Orlando to introduce mixed classes should take us to discuss today not about separate classes, but about the meaning classes may have as the basic teaching units. The new teaching requires flexible, open, multi-functional, accessible learning environments. The answer coming from school architecture and current interior design should be rich and dynamic spaces, suitable for constant differentiation of the educational proposal, of teaching methodologies and instruments, in order to maximize the benefits of the heterogeneity of the school population and to facilitate relationships.

This is the new challenge we face and the Italian history can teach us how to deal with it, not yielding on the temptation to go back but learning from the example given us by great scholars and teachers – such as Lodi, Don Milani, Montessori, Agazzi sisters - to build social emancipation and educational innovation based on synergy between differences.



Marina Santi

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